venerdì 24 febbraio 2017

RECENSIONE:ADELE - 21

ADELE - 21
LABEL : XL/COLUMBIA
FORMAT : VINYL LP





Non è mai facile fermarsi ad analizzare un disco che è stato un enorme successo in tutto il mondo : se se ne parla bene, si rischia di scadere nel banale e nel già detto dalla maggioranza della gente; se ne parli male, passi per il bastian contrario della situazione, il sovversivo che vuole andare contro tutto e tutti. Un ascolto per una recensione richiede la massima attenzione e soprattutto imparzialità, ed è quello che ho cercato di fare anche in previsione di una futura (e particolare) recensione che presto pubblicherò su questo blog.
Adele è, probabilmente, la scoperta più piacevole degli ultimi anni nella scena pop:artista carismatica, capace di rubare la scena già solo con la sua presenza e la sua splendida voce, completa (oltre ad interpretarle,ha scritto ben 10 delle 11 canzoni presenti su "21") ed anche piuttosto riservata e poco incline a seguire le regole dello showbiz, rarità non di poco conto per chi poi si trova a cavalcare l'onda di un successo strepitoso come il suo.
"21" è il secondo disco della sua carriera (il primo, "19", era passato un pò in sordina, per poi essere riesumato e riscoperto successivamente all'uscita di questo disco) e deve il suo titolo all'età della cantante inglese nel periodo in cui è stato composto; Adele ha infatti dichiarato più volte che la scelta della sua età come titolo dei suoi lavori deve rappresentare un'istantanea di quello che è lei in quel preciso momento e di quello che le è accaduto, come se fosse un album fotografico. 
E la storia dietro a "21" è quella che nasce dalla sofferenza per una relazione appena finita, sofferenza che pervade un pò tutto il lavoro tra momenti di autentica delusione e di sconforto, ma anche di rabbia e di amarezza che sono stati fonte di ispirazione per tutti i testi. Un disco fatto prevalentemente di ballate, a cui per fortuna in un secondo tempo sono stati aggiunti due pezzi più movimentati (che alla fine sono diventati anche autentici singoli da traino), rendendolo un lavoro più vario e caratteristico e salvandolo dall'essere troppo statico e melenso. Uno di questi due brani, "Rolling in the deep", ha avuto la capacità di diventare una hit radiofonica colossale creando anche uno stile (almeno sui pezzi ritmati) oggi inconfondibile, e lo ha fatto con la semplicità e l'immediatezza tipiche dei successi che si riascolteranno anche tra vent'anni. La voce di Adele, meravigliosa, viene accompagnata nelle strofe con dei controcanti efficaci che pilotano l'ascoltatore fino al ritornello molto orecchiabile, dove l'apertura vocale raggiunge picchi altissimi:ben poche voci femminili in circolazione possono permettersi un brano come "Rolling in the deep". 
Piazzato in apertura di disco, il pezzo fa anche da anteprima al mix di influenze che verranno sviluppate più avanti:c'è gospel, c'è country e c'è R&B, il tutto rivisitato in modo personale ed originale; inoltre,la storia di ogni singolo brano è raccontata sempre in modo lineare e diretto, contribuendo a renderlo immediato e di facile ascolto. "Rumor has it" è l'ideale prosecuzione di "Rolling", quasi la canzone gemella, che rielabora lo stesso stile senza però essere ripetitiva; la sua batteria ossessionanate si interrompe improvvisamente verso la fine, lasciando spazio ad un break geniale che riporta a certe produzioni di musical anni '70, è il tocco originale di un brano che altrimenti sarebbe potuto risultare troppo statico. I cori stavolta sono spostati nel cuore del refrain, e la varietà di note che tocca la voce di Adele è più ampia e variegata; alla resa dei conti, ascoltandola è impossibile non farsi trascinare dal suo ritmo martellante.
La successiva "Turning tables", è pezzo per voce e pianoforte scarno ed emozionante al quale Adele offre un'interpretazione intensa, di storia chiaramente già vissuta dove l'amore lascia spazio a discussioni, conflitti ed abbandoni. Quei "tavoli rovesciati" toccano anche un argomento scottante come percosse e violenze solo lasciate intuire, ma probabilmente ulteriore motivo di sofferenza autobiografica.
Da qui in poi, l'album si incupidisce, ed il tono generale di tristezza per la perdita di una persona a cui l'artista era particolarmente legata emerge chiaramente; diventa un disco da ascolto (nel vero senso della parola), senza mai essere noioso, perchè comunque lo standard qualitativo resta sempre piuttosto alto anche in brani meno conosciuti come "Don't you remember" e "I'll be waiting":questa non è cosa scontata specie in un album in cui sono presenti degli autentici gioelli che, se non lo sono già, diverranno dei classici del pop.
"Set fire to the rain" è, a mio avviso, uno degli episodi più riusciti dell'album. Intanto perchè emerge anche un pò di rabbia dietro la sofferenza, e poi perchè quel mid-tempo pop costruito su un giro di pianoforte ipnotico si sposa a meraviglia e con naturalezza alla voce della cantante inglese.
Il brano è arrangiato splendidamente, e racconta l'amarezza e la disillusione di una donna nello scoprire quanto l'amore possa rendere deboli e succubi, specie se rivolto verso la persona sbagliata:
"...My hands, they're strong
But my knees were far too weak
To stand in your arms
Without falling to your feet
But there's a side to you
That I never knew, never knew
All the things you'd say
They were never true, never true
And the games you play
You would always win, always win
But I set fire to the rain
Watched it pour as I touched your face
Well, it burned while I cried
'Cause I heard it screaming out your name,
Your name..."
La chiusura, eplosiva e magistrale, vede Adele  toccare varie tonalità vocali, specie quando ripete la frase "let it burn"; in quel frangente, il pianoforte entra e sale di volume, creano un effetto di insieme dove tutti gli strumenti ascoltati in precedenza si ritrovano e si uniscono in un finale efficace e vivido. "Set fire to the rain" è un brano che non mi stancherei mai di sentire:ad ogni ascolto, regala uno spunto diverso, una sensazione particolare, una sfumatura che magari prima era sfuggita.
La prima facciata del lato A si chiude con "He won't go", che con il suo ritmo compassato ancora una volta rimescola ad arte gli stessi ingredienti dei brani precedenti, confermando - se mai ce ne fosse stato bisogno - che "21" non è un album comune, ma disco di altro spessore rispetto alla stragrande maggioranza di quello che è circolato dall'inizio del nuovo millennio.
La seconda parte regala altri momenti di rilievo, e il primo (e unico) passo falso del disco; andando con ordine, l'intima "Take it all" (primo brano scritto per questo album) è l'espressione più chiara dell'ispirazione gospel di Adele, scarna e toccante, mentre "One and only" è da annoverare tra i brani più riusciti del lavoro:ricorda i classiconi strappalacrime degli anni '60, tipici della soul music, pur rimanendo attualissima e musicalmente moderna; con questa anima "nera" che emerge in tutto il suo fulgore in diversi passaggi del disco e le sue sonorità malinconiche, la voce di Adele si plasma in modo davvero superlativo.
L'unica cosa poco convincente di "21" è la cover di "Lovesong", originariamente incisa dai Cure di Robert Smith. Fa un certo effetto ascoltarla in versione acustica, la chitarra e gli archi la rendono delicata e nel complesso accettabile, ma al sottoscritto questa rivisitazione non è piaciuta più di tanto:probabilmente sono troppo legato alla versione originale, bellissima per quella sua atmosfera contrastante tra musica apparentemente leggera ma dal retrogusto gotico, quel cantato di Smith quasi parlato e a tratti indolente, venato di malinconia, che solo lui riesce a trasmettere in quel modo quasi spettrale.
Qui non c'è niente di tutto questo, la "Lovesong" di Adele è spoglia e rallentata, una rivisitazione nel suo stile (cosa peraltro apprezzabile, meglio così che una scimmiottatura che non le sarebbe sicuramente riuscita bene) che è senz'altro un rischio calcolato e dimostrazione di personalità; ma alla fine, come reinterpretazione é fin troppo lontana dalla versione dei Cure e per questo troppo snaturata, tanto da stentare a riconoscerla in alcuni passaggi. 
Insomma, se volessi risentire una "Lovesong", sceglierei sempre la versione dei Cure e non questa.
L'album si chiude con un altro splendore, "Someone like you", dove ancora una volta il pianoforte e l'interpretazione vocale di Adele sono da applausi e padroni assoluti che rubano la scena e le orecchie, ti rapiscono fino ad ammaliarti con una melodia da brividi.
Il testo è un epilogo fantasioso di tutta la storia raccontata da Adele in versi sin dal primo brano, dove lei immagina di ritrovare l'uomo di cui era innamorata a distanza di anni, ormai sposato e con dei figli.
Attraverso la sua interpretazione, si riesce ad immaginare quel sorriso poco spontaneo che viene fuori quando si vede la persona di cui si è ancora innamorati andare avanti con la sua vita; quel sorriso che si fa augurandogli il meglio, mentre il cuore batte di dolore e un principio di lacrime inumidisce gli occhi:
"I heard that you're settled down
That you found a girl and you're married now.
I heard that your dreams came true.
Guess she gave you things I didn't give to you.
Old friend, why are you so shy?
Ain't like you to hold back or hide from the light.
I hate to turn up out of the blue uninvited
But I couldn't stay away, I couldn't fight it.
I had hoped you'd see my face and that you'd be reminded
That for me it isn't over.
Never mind, I'll find someone like you
I wish nothing but the best for you too
Don't forget me, I beg
I'll remember you said,
Sometimes it lasts in love but sometimes it hurts instead,
Sometimes it lasts in love but sometimes it hurts instead...
"
Nonostante "21" sia stato un successo planetario che è riuscito a vendere milioni di copie (autentica chimera di questi tempi), Adele non si è piegata alle bieche regole delle case discografiche che chiedono o, nel peggiore dei casi pretendono un disco nuovo ogni anno.
Ha atteso quasi 4 anni prima di dare un seguito a questo disco,dimostrazione di maturità e consapevolezza; e mentre tante sue colleghe sfornano dischi a raffica come se fossero ciambelle (e le ciambelle , si sa, non sempre riescono con il buco - vero Rihanna?), badando più alla quantità che alla qualità del loro prodotto, Adele ha dimostrato a priori di essere artista prima di tutto e non starlette, interprete di classe più che popstar.
"21" è un lavoro intimo dove lei dona una parte di sè e del suo vissuto al mondo intero; non deve essere stato facile raccontarsi così apertamente, ma la fatica di tirare fuori tutto questo da sè stessa, è stata ripagata dall'aver toccato il cuore di molti e dall'enorme riscontro che questo disco ha avuto anche in termini di critica.
Il successo pare non averla scalfita minimamente, e sembra rimasta ben ancorata con i piedi per terra, persona umile e genuina. Il più delle volte tanto clamore stordisce, ma chi sa tenere la rotta senza perdersi nei suoi vortici, spesso è destinato ad averla vinta e a restare nel firmamento dei grandi artisti per anni. Adele ha già trascritto il suo nome in quel firmamento, ed oggi ne è senza dubbio la stella più luminosa.

VOTO : 8/10
BEST TRACKS : "SET FIRE TO THE RAIN", "SOMEONE LIKE YOU", "ROLLING IN THE DEEP", "TURNING TABLES".

sabato 18 febbraio 2017

RECENSIONE:IN FLAMES - SIREN CHARMS (2014)


IN FLAMES - SIREN CHARMS (2014)
LABEL : NUCLEAR BLAST
FORMAT : 2 X 12'' LIMITED WHITE VINYL





Dopo aver scritto di "Battles", mi è venuto quasi naturale tornare su questo lavoro precedente degli In Flames. Prima di tutto per giustificare i numerosi riferimenti a questo lavoro presenti nella recensione precedente, ed in secondo luogo per riviverlo e riapprezzarlo nella sua completezza. Riascoltarlo, è stato anche un buon pretesto per dare una spiegazione logica al perchè "Battles" mi ha deluso tanto quanto questo "Siren charms" mi aveva esaltato.
Premetto che, nel bene o nel male, ho sempre seguito gli In Flames, e quei giorni in cui mi avvicinai a "Colony", nonostante siano ormai lontanissimi, restano ancora vivi e impressi nella mia memoria; questo background torna utile per avere un quadro generale della loro evoluzione, senz'altro più accessibile oggi di allora, dove il sound era molto più grezzo e vicino al black/death metal che al rock (sempre rabbioso, ma più pulito e orecchiabile) odierno. In più, c'e' da considerare che questo disco offre un ulteriore cambio di direzione e di sonorità rispetto ai lavori precedenti del combo; questo, lo ha portato ad essere un disco accolto maluccio dai fans del gruppo, e la critica non lo ha (erroneamente) esaltato in modo particolare, definendolo un lavoro sconclusionato e confusionario, quasi un disco di transizione verso un nuovo sound che poco si addice alla storia del gruppo svedese.
A mio avviso "Siren charms" è, invece, un grande album, forse uno dei migliori dischi metal degli ultimi 20 anni; e chissà che, come molte grandissimi opere stroncate dalla massa all'epoca dell'uscita, non diventi un lavoro di riferimento e termine di paragone in un futuro non molto lontano.
Pezzi come "Paralyzed", "In plain view" e "Through oblivion" sono autentici tesori di questi tempi, energici, ispirati, splendidamente suonati ed interpretati, eppure non sono che una goccia di un abisso di emozioni e passaggi memorabili, il cui fulcro e magnum opus è in "When the world explodes", "Monsters in the ballroom" e With eyes wide open", un trittico di capolavori da spellarsi le mani. 
Vediamo nel dettaglio come "Siren charms" meriti un posto d'onore non solo nella discografia degli infiammati, ma anche nella mia particolarissima selezione di dischi heavy metal.
"In plain view" è il pezzo di apertura:ha un assolo chitarristico da antologia, con le due chitarre di Bjorn Gelotte e Niclas Engelin che si inseguono, e poi si sovrappongono creando un connubio già proposto in passato, ma raramente con tanta efficacia. Il ritmo avvolgente, quasi tribale, lascia spazio ad un  ritornello esaltante ed elettrizante, rendendo questo brano un rullo compressore imprescindibile nelle loro esibizioni dal vivo - ed il risultato si può apprezzare nel doppio cd "Sounds from the heart of Gothenburg" - dove emerge tutta la veemenza del cantato di Anders Fridèn:
"The fire
My heads all wired
In plain view
There's nothing in the way
I see with clarity
The eye of destiny
But just a little spark and once again, I don't know
Deep inside
The memories that are left behind
Close my eyes
I've been hopelessly lost in the fear
Are you for real?..."
Altra pietra miliare del disco è "Paralyzed", dove chitarre ed elettronica si sposano a meraviglia, e diventano il filo conduttore che lega le strofe all'apertura sfrenata e rabbiosa del refrain, autentica martellata alle orecchie con effetto adrenalinico.
"Through oblivion" è un pezzo ovattato e dal ritmo compassato, che fila liscio e va giù facilmente come un bicchiere d'acqua, acusticamente impeccabile e orecchiabile:scelta azzardata proporlo come singolo, perchè non rappresenta un "teaser" particolarmente rappresentativo dell'album, ma comunque valida e apprezzabile. 
Il perchè è presto detto:"Siren charms" è un edificio imponente le cui fondamenta sono costituite da brani di questa levatura, abbinati a brani come "Rusted nail" e "Dead eyes", magari meno immediati, ma solidissimi e mai noiosi. Partendo da questo presupposto, le rifiniture di questo bellissimo edificio e le sue sfumature sono racchiuse tutte nel trittico di cui ho parlato in precedenza; raramente un album può vantare brani così tanto belli e di così alto spessore come quelli di cui parlerò adesso.
"With eyes wide open" è una grandissima traccia, sofferta, acustica quanto basta, dalla melodia indelebile; probabilmente, quanto di meglio non sia stato prodotto negli ultimi anni piuttosto moscetti di ballads metal. Fridèn affronta gli spettri dello scorrere del tempo, e di ciò che spesso nella vita ci si trova ad inseguire invano, quel qualcosa che potrebbe accadere ma che non è mai successo (almeno fino ad ora), e il dilemma della scelte che si fanno, che siano giuste o sbagliate, e che costituiscono e segnano parte del nostro destino:
"A fate that we deserve
There's no escape, we're walking backwards
I'm on your side, but life's a selfish thing
Like broken promises
A thousand times
Try to fake it
Just another liar
It's the wall that we are building
All the things that we made wrong
Don't hate yourself if you walk away
You reach, but nothing's there
Time and time again
Colors fade from black to grey..."
Si cerca comunque un barlume di speranza, e non tutto è negativo; il tema viene poi ripreso ed ampliato in quell'autentica meraviglia sonora che è "When the world explodes", 4 minuti e mezzo intensissimi carichi di rabbia, indolenza, dolcezza, aspettativa e illusione. Un concentrato di emozioni dove il growl di Anders incontra la voce angelica di Emily Feldt, soprano svedese, che interviene a metà brano e che ruba la scena subito dopo il secondo ritornello, nel finale-capolavoro struggente ed emozionante, introdotto da un break sommesso e introspettivo:qualcosa di così bello che è impossibile non avere la pelle d'oca ad ogni ascolto. Ho fatto ascoltare "When the world explodes" a diverse persone, anche poco propense ad ascoltare i riff e il cantato a squarciagolda di una metal band, ed il giudizio è stato unanime:"Bella questa canzone...di chi è?".
"So if I never get to say this to you
You should still know, dry your eyes
Find a stream that leads toward the water of the divine
Come lay with me (lay with me)..."
La voce femminile è quell'appiglio in quell'abisso di cui parlavo prima, la mano che si tende per afferrarti e tirarti sù nel momento di difficoltà. Ogni tassello di questo capolavoro si incastra alla perfezione con il successivo passaggio, ennesima riprova delle enormi capacità compositive del gruppo.
E poi, "Monsters in the ballroom", terza stoccata sopra le righe, aperta da un 4/4 di chitarre indiavolate dove si dipana la voce inzialmente limpida ( e successivamente sempre più incazzata) di Fridèn fino al ritornello, magistrale ed epico:
"Without the sense of space or time
The infinite
The endless static
The doubt. We never had a way
Let us play a game
If you take my hand
I'm going to get you out of here
Away from the monsters in the ballroom
And the swinging chandeliers...
"

Anche qui, il racconto di menti tormentate in questa "sala da ballo" piena di mostri lascia spazio alla speranza di redenzione e di salvezza, metafora di come nella vita si debba combattere contro i propri demoni e contro il mondo che va in rovina, perchè dal suo sfacelo si può sempre ricostruire qualcosa di buono ("Find ourselves some ruins, Turn them into something").
Passato l'incanto del richiamo delle tre splendide "sirene" di cui sopra, l'album torna su binari più consoni e familiari con "Rusted nail", che esce fuori dalle casse possente e minacciosa pur essendo uno dei brani più in linea con i classici del genere, senza offrire particolari spunti memorabili; l'apertura ariosa del ritornello lo porta comunque a fare un'egregia figura anche in presenza di autentiche delizie sonore come quelle appena citate. 
Si chiude quindi con "Filtered truth", e con le due chitarre pronte a confezionare un altro assolo di ottima fattura, tecnicamente mostruoso per affiatamento e simbiosi.
Persino la bonus track, "Become the sky", presente nell'edizione deluxe, è un brano valido che non avrebbe sfigurato nella selezione principale, ed è quasi un peccato che si debba andarla a cercare solo in alcune stampe del cd.
"Siren charms" è stato sottovalutato solo perchè gli In Flames sono andati in cerca di soluzioni diverse rispetto al passato:operazione rischiosa, certo, ma che se poi riesce va assolutamente apprezzata. Il merito sta anche nell'essere riusciti a non snaturare il loro stile, e a chiunque ha criticato questo lavoro suggerisco un riascolto attento perchè raramente si ha la fortuna di imbattersi in tanta qualità nello spazio di un solo disco. 
Andando un pò controcorrente, e opo averlo riascoltato interamente ancora una volta, non ho nessun dubbio nel definirlo il migliore dell'intera discografia del gruppo, e questo spiega e in parte giustifica il motivo per cui il successivo "Battles" non sarebbe comunque riuscito a mantenere lo stesso altissimo standard. Battute a vuoto nell'arco di una carriera ventennale ci stanno e sono inevitabili, e spesso arrivano dopo aver tirato fuori dal cilindro delle grandissime opere:e questo album lo è a tutti gli effetti.
Gli In Flames restano una grande band, le capacità per un "Siren charms" parte 2 certamente non mancano:io lo aspetto. 
Nel frattempo...per favore non levatemi questo vinile dal giradischi!


VOTO : 9/10
BEST TRACKS : "IN PLAIN VIEW", "WHEN THE WORLD EXPLODES", "MONSTERS IN THE BALLROOM", "WITH EYES WIDE OPEN", "PARALYZED".

domenica 12 febbraio 2017

RECENSIONE:IN FLAMES - BATTLES (2016)

IN FLAMES - BATTLES (2016)
LABEL : NUCLEAR BLAST
FORMAT : DELUXE DIGIPACK CD





Ammetto di aver avuto molta paura a mettere sul piatto questo cd. Ho amato in modo particolare il lavoro precedente degli In Flames, "Siren charms" - nonostante sia stato accolto maluccio dalla critica giornalistica - e sapevo che ripetere quello standard qualitativo altissimo, e riproporre la stessa intensità che in certi pezzi era davvero trascinante, sarebbe stato piuttosto difficile.
Con un mese di anticipo sull'uscita del disco, ho avuto modo di ascoltare le due canzoni scelte come singoli di lancio, "The end" e "The truth", un assaggio agrodolce di quello che poi è stato "Battles".
Ricordo di essere rimasto molto soddisfatto dopo aver ascoltato "The end", che con la sua dirompenza mi ha conquistato quasi subito, e che è rimasta nella playlist "calda" del mio lettore mp3 per diverse settimane senza stancarmi. Riff rabbiosi, voce con growl cattiva al punto giusto, e ritmo trascinante da pogo nei concerti; un'ottimo preludio insomma, guastato un pò dal secondo brano di assaggio, "The truth", che sembra essere la versione di "The end" più ammorbidita e per questo più piatta e insignificante, alla resa dei conti anche troppo distante da quello che si cerca in un disco di Ander Fridén e soci. Qui sono nate le mie paure, a partire dall'introduzione di questi "cori di bambini" che accompagnano il ritornello (presenti anche in "The end", peraltro, ma in modo più soft e meno preminente) fino ad arrivare alla mancanza di mordente, di originalità:quel brutto retrogusto di già sentito, di poco originale, di scialba minestra ripassata e servita tiepida.
Detto ciò, trattenendo il fiato, piazzo il cd nel lettore e neanche faccio in tempo a tirare fuori il libricino che "Drained" mi investe come un treno in piena faccia. Eccoli gli In Flames che mi piacciono, diretti e incazzati, ma sempre accessibili perchè non necessariamente estremi come nei primi anni, quel connubio di melodia ed energia che sono tratti unici e distintivi della band svedese.
Il ritornello è un macigno ben architettato, così come l'intro che prepara la strada al massacro chitarristico in arrivo che parla di una relazione finita male, e di un paradiso divenuto inferno:
"What we had we throw away
We were close to heaven
But we ended up in hell
What we had we throw away
Just cause the hurt doesn't show
There's no way to recover
You broke my heart in two
I had a dream of growing old
I saw us driving to the end of the road..."
 "Drained" ricorda le migliori produzioni degli In Flames, da "The quiet place" a "Ordinary story" (per andare abbastanza a ritroso nel tempo) legandosi in modo quasi naturale a tutta la produzione precedente del gruppo. Subito dopo arriva "The end", territorio già conosciuto e apprezzato, che diventa la degna prosecuzione della direzione intrapresa, il gancio sinistro dopo il destro che mi ha quasi stordito e soprattutto tranquillizzato, perchè a questo punto ero pronto a scommettere che gli In Flames avessero fatto centro anche questa volta; mai mi sarei aspettato che  da qui in poi ci sarebbe stato un terribile e prolungato blackout.
"Like sand" ti fa tornare bruscamente con i piedi per terra:se questa pausa più tranquilla doveva emulare quei pezzi di altissimo spessore di "Siren charms" come "With eyes wide open", l'obiettivo è completamente fallito, perchè questa terza traccia è stucchevole e noiosa, non ha nulla di innovativo e addirittura sembra uno scarto del disco ripescato in extremis. A questo punto, per cercare di alleviare i timori della vigilia che si riaffacciano pericolosamente nella mente, speri che le cose migliorino, e che lo facciano immediatamente. Arriva "The truth", e va anche bene con tutto il suo coro "scolastico", considerato che le orecchie ormai lo conoscono e hanno imparato ad apprezzarlo (o accettarlo?), nonostante tutto. Piazzato dopo "Like sand", "The truth" è uno stacco quasi necessario prima di rituffarsi nel cuore delle battaglie degli In Flames.
La bellicosa "In my room" riprende, a tratti, i discorsi lasciati in sospeso dopo l'ottimo inizio, con la giusta contrapposizione tra le strofe apparentemente tranquille e quel vortice minaccioso del refrain in cui ti trascinano; Il pezzo deve molto alle precedenti "Paralyzed" e "In plain view", ma rimane chiaramente una spanna sotto a quegli standard qualitativi.
"Before I fall" propone un interessante giro di chitarra, ma è una promessa non mantenuta:si resta lì, per 3 minuti scarni, ad aspettare che cresca, che lieviti come la pasta della pizza - loro lo sanno fare benissimo - e invece rimane piatto come una tavola, senza una briciola di sussulto, e finisce ancora prima che si sia riusciti ad inquadrarlo, inducendo di nuovo l'ascoltatore al pensiero (stavolta fondato) che ci si trovi di fronte ad un altro riempitivo, buttato lì quasi per caso e per fare numero.
La situazione poi non migliora più di tanto:"Through my eyes" è un insieme di riff quasi death metal che diventano più una sconclusionata prosecuzione di "The end" che un'autocitazione voluta e costruita; il giudizio è talmente negativo che neanche il bell'assolo dopo il secondo ritornello riesce a farmi mandare giù il brano. 
Già a questo punto, il confronto con "Siren charms" è quasi impietoso, e capisci che le preoccupazioni iniziali erano, purtroppo, ben riposte. In questi casi, nel momento esatto in cui monta la delusione, bisognerebbe cancellare la cronologia degli ultimi venti minuti nella nostra testa, e cercare di andare avanti con l'ascolto nel modo più neutrale possibile:impresa ardua, il più delle volte.
La title track, "Battles" per fortuna torna su livelli consoni alla band di Fridén, con un melodia azzeccata e gli assolo chitarristici che si uniscono fino a sovrapporsi, tipico marchio di fabbrica degli "infiammati" ed in questo caso specifico, ossigeno puro dopo tanta aria stantìa. Anche "Here until forever" prosegue sulla stessa scìa di miglioramento generale, perchè senza brillare in modo particolare regala comunque degli spunti interessanti soprattutto nelle pause acustiche, ma è pur vero che, quando la qualità è ben al di sotto delle aspettative, basta poco per far spiccare sugli altri un brano sì e no accettabile.
"Underneath my skin" è l'ennesimo passaggio a vuoto del disco, davvero insignificante; qui gli In Flames cadono in modo vistoso e roboante nella superficialità e nella mediocrità, e il pezzo non fa altro che diventare un altro tassello del mosaico di sconforto per un disco sul quale forse avevo riposto troppe aspettative.
Una grande nota positiva è invece "Wallflower", dove finalmente si torna ad ascoltare qualcosa di veramente particolare e abbastanza fuori dagli schemi; il basso elettrico pervade quasi tutto il brano dandogli un tono calustrofobico e molto cupo (la tastiera nella parte finale addirittura mi ha fatto pensare al suono di un olifante), l'elettronica aggiunge un tocco gotico, quasi doom:
"I like to look at you from a distance
I like when you scream in my face
Afraid to say the right words, in right order
So they make sense to a person with such grace
What if my dreams don't become reality?
Is my life just a big mistake?
Will I be happy for the times I had
Or would I reconsider and recalculate?
I want to be heard but leave no trace
I want to be seen but take no space..."

In un'intervista a Metal Hammer, il chitarrista Bjorn Gelotte definisce "Wallflower" un viaggio musicale dove si aggiunge di volta in volta un pezzo volto a costruire un qualcosa dal finale grandioso, stesso metodo con cui nacque "The chosen pessimist" (brano di "A sense of purpose").
La lunga introduzione, aperta da un persistente arpeggio, contribuisce ai 7 minuti di durata del brano, minuti che in realtà passano in un batter d'occhio per l'intensità e l'angoscia che riesce a trasmettere, specie nella seconda parte e nella coda. "Wallflower", tirando le somme, è la cosa più riuscita in "Battles",giustifica l'acquisto del cd e (quasi) lo salva. E' anche un esempio di quello che poteva e doveva essere questo disco, ed invece, alla resa dei conti, è solo uno dei pochi bagliori in un lavoro riuscito a metà.
La versione standard si chiude con "Save me", che pur essendo ben orchestrata non si discosta particolarmente dal senso di incompiutezza complessivo, ed è un peccato che la chiusura evocativa e ad effetto abbia una durata brevissima che avrebbe potuto essere anche sviluppata ed ampliata.
Nell'edizione deluxe invece, sono presenti 2 bonus tracks, altra cartina al tornasole di quel che è questo lavoro altalenante:ad una orribile "Greatest greed", chiaramente uno scarto di bassa leva,si aggiunge "Us against the world", pezzo che avrebbe meritato di essere incluso nella scaletta principale in luogo di brani molto meno validi.
Probabilmente "Battles" è stato composto e preparato troppo in fretta, e tranne alcune eccezioni, è un lavoro a tratti largamente insufficiente. Considerata l'uscita del live "Sounds from the heart of Gothenburg" a settembre, che fretta c'era di dare alle stampe questo disco? Logiche da casa discografica, verrebbe da dire; ma se così fosse, mi meraviglierei che la Nuclear Blast abbia fatto pressioni di questo tipo, visto che è sempre stata un'etichetta attenta alla promozione delle bands in scuderia.
Questo lavoro poteva essere ponderato in modo più oculato, e gli spunti per tirare fuori un album all'altezza delle migliori produzioni targate In Flames c'erano. Così invece, la band svedese ha compiuto un passo falso, amplificato ancor di più dal precedente "Siren charms", disco quasi perfetto.
Forse, proprio da lì dovrà ripartire il gruppo per riaccendere quelle fiamme che in questa battaglia si sono un pochino affievolite.

VOTO : 5/10
BEST TRACKS : "THE END", "DRAINED", "WALLFLOWER".


martedì 7 febbraio 2017

RECENSIONE:CURTIS HARDING - SOUL POWER (2015)

CURTIS HARDING - SOUL POWER (2015)
LABEL : ANTI/EPITAPH RECORDS/BURGER RECORDS
FORMAT : LIMITED EDITION CLEAR VINYL + CD







La presenza di un disco come questo nella mia collezione, è dovuta alla segnalazione di un mio amico che ha insistito tanto per farmelo ascoltare, dicendomi "sentilo, perchè ne vale veramente la pena!". Alla fine mi sono lasciato convincere, e devo dire che aveva ragione:questo è un album fuori dal comune, poco pubblicizzato, senza una grande label alle spalle, da cercare quindi nei negozi specializzati che ne avranno sì e no un paio di copie (non aspettatevi stock in grandi quantità) e che quindi non troverà mai spazio sugli scaffali in bella vista. Inoltre, è il lavoro di un esordiente (che incredibilmente sembra già un veterano), ed è risaputo che se non hai il tormentone che diventa virale oppure un nome di richiamo, raramente guadagni quella visibilità necessaria a "vendere" il tuo prodotto.
Non oso neanche immaginare quanti altri tesori simili a questo disco passino inosservati, sconosciuti alla stragrande maggioranza delle persone che acquistano dischi, me compreso:senza segnalazioni da parte di nessuno, io ancora oggi non saprei chi è Curtis Harding.
Cos'ha dunque, di speciale questo album? Semplice:è un disco di soul grezzo, che sembra uscito 30 anni fa, suonato e cantato da un soulman d'altri tempi catapultato ai giorni nostri da una macchina del tempo. Metti la puntina sul disco, lasci partire "Next time", e non puoi non rimanere affascinato dal ritmo travolgente della Fender e della batteria che accompagnano questa voce calda a tratti sofferente, a tratti gioiosa, con Curtis che sembra la stia suonando davanti a te, tanto è essenziale e pulito il lavoro. Non c'è niente di artefatto, è tutto molto crudo e spoglio, e se proprio si vuole ad andare a cercare il pelo nell'uovo, è che questo vinile appena scartato suona troppo "pulito" e se ci fosse qualche scricchiolìo in più (che arriverà, a forza di ascoltarlo) lo renderebbe ancora più vintage, più d'annata.
Ad un'analisi più attenta, è proprio quello che Harding dice nelle primissime strofe della canzone :
"We could've went to heaven
Put you in your place
Now we're somewhere else
Outer space
I'm staring in the mirror
I broke the fucking glass
Now we're somewhere else
Living in the past..."
Il ritmo incalzante lo rende uin brano godibilissimo, una classico instantaneo che alla fine risulterà essere anche uno dei migliori pezzi dell'intero album. Con il secondo solco, arriva subito un break, una pausa raffinata e riflessiva intitolata "Castaway", tipico lento con chiarissime reminiscenze del blues anni 60 più malinconico, intervallato da due assoli alla B.B.King davvero emozionanti.
Niente di originalissimo, ovvio, ma neanche di banalmente scopiazzato, perchè l'interpretazione sentita ed accorata - con vocals riverberate per renderle volutamente più distanti dall'ensemble sonoro - è un qualcosa che non puo' non entrarti dentro e tenerti incollato ad ascoltare il pezzo, davanti ad un bicchiere di buon whisky, rilassato nella penombra. L'effetto, rarefatto ed intimo, è figlio dell'atmosfera che riesce a creare l'interprete:
"Cast it away
Focus your pain
Relax yourself
Detach yourself
And cast it away
And if they should fall
Here's what you do, here's what you do
Don't cry at all
It's best for you, it's best for you
So just cast it away..."
Neanche il terzo brano in scaletta scende di livello, tanto da chiedersi se si stia ascoltando una compilation soul con James Brown,Curtis Mayfield, gli Everly Brothers reinterpretati e rivisti in chiave del tutto personale da questo artista uscito da un'altra epoca; "Keep on shining" infatti, torna su ritmi frenetici tipici dei migliori riempi-pista della Motown, ed è trascinante e piena di vitalità, e si contrappone alla successiva "Freedom", che è cantata interamente in falsetto con degli innesti jazzistici di alta scuola e senza dubbio più cupa e riflessiva degli altri brani in scaletta, ma allo stesso tempo è anche un'ulteriore riprova del talento e delle capacità vocali di Harding, che dimostra di essere oltretutto poliedrico e camaleontico.
In un'intervista a Rolling Stone - Harding definisce il suo stile "Slop'n'soul", dove per "slop" si intendono gli avanzi di un pasto, mescolati ad arte con un'insieme di ingredienti tipici della musica black, indie e hip-hop compresi. "Heaven's on the other side" ne è un tipico esempio, dove si affacciano anche influenze funky alla Chic, e un riff chitarristico spensierato che dona solarità ad un brano piacevole e divertente, e che funge da ottimo preambolo alla bellissima "Beautiful people" che più di tutti gli altri brani mi ha convinto a voler comprare assolutamente questo album.
Con la voce carica di effetti che mai si scontrano con le sonorità del brano, ed anzi gli donano un tocco solenne, più etereo, "Beautiful people" merita di essere definito come episodio più riuscito del disco, perchè si allinea ai grandi classici neri da gospel, sia per le sonorità che per i contenuti compositivi da "ritorno alle armi", con il testo che deve molto al sempre attuale "A change is gonna come" di Sam Cooke, per esempio, mantenendo sempre una sua identità così radicata da essere già marchio di fabbrica:
"Now draw the line
Seize the time
Build a home…be free
Listen up, beautiful people
You got to stand up or die...
L'inno di Harding incita il suo popolo a tracciare una linea per difendere la propria libertà e riscoprire le proprie radici, e lo fa ergendosi a trascinatore della folla, riconosciuto e credibile.
L'abum prosegue a ritmo serrato, raccogliendo altri "slops" qui e lì e rielaborandoli con classe:"The drive" sembra uscita da uno dei primi lavori di Lenny Kravitz, mentre "Surf", costruita su un una base di basso martellante attinge molto dall'indie britannica e dalla garage music, tipicamente "bianca"; Mescolare in modo così risucito certi generi completamente diversi, è un azzardo che in questo caso è pienamente riuscito. La musica black rielaborata sotto ogni sfaccettatura è tema ricorrente in ogni singolo brano dell'album, e rende il tutto, a suo modo, un opportuno omaggio alle parole e al tracciato musicale della vecchia guardia del genere.
Con una madre cantante gospel, ed una sorella maggiore assidua ascoltatrice di acid rock, è facile intuire dove Curtis Harding abbia trovato l'ispirazione per un tale miscuglio, e sul come sia riuscito ad avventurarsi con tanta semplicità ed immediatezza fuori dai canoni classici senza andare minimamente ad intaccare gli schemi del filone rhythm & blues.
"Soul power" è per questo un ottimo esordio, un disco crudo ed essenziale ma allo stesso tempo unico e carico di sfumature, mai noioso, volutamente vintage ma allo stesso tempo innovativo. In tempi di magra come questi, dove imperversa una certa carenza di idee e una sempre più frequente mancanza di ispirazione , c'è bisogno di prodotti simili a questo, e un'assoluta necessità di buona musica.
Se Harding saprà valorizzare il lavoro già svolto, magari con un seguito di "Soul power" all'altezza o addirittura migliore, forse potremo dire di trovarci davvero di fronte ad un grande artista, ad un soulman di altri tempi che è prodotto autentico di questi anni. In questo caso, bisognerà rompere quella macchina del tempo che lo ha portato qui per non permettergli di tornare indietro da dove è arrivato. E tenercelo stretto.


VOTO : 8/10
BEST TRACKS : "NEXT TIME", "CASTAWAY", "BEAUTIFUL PEOPLE", "THE DRIVE".







sabato 4 febbraio 2017

PLAYLIST:SONS OF ANARCHY

PLAYLIST : 
SONS OF ANARCHY

Inauguro un nuovo tipo di post che mi vedrà elencare, di volta in volta, 5 canzoni scelte a tema, volte a creare una mini-playlist di brani che reputo degni di nota e che inserirei in una virtuale (ma anche reale) e rappresentativa scaletta legata al titolo.
Inizio questa "variante" di recensione scegliendo 5 canzoni tratte dalla serie TV "Sons of Anarchy" che sto guardando - anzi divorando - in questi giorni. Sono brani, questi, che inevitabilmente restano legati alle immagini e alla storia del telefilm, e che per questo creano un impatto emozionale diverso per chi ha avuto modo di vedere ed apprezzare le 7 stagioni della serie.
E' mia consuetudine, quando trovo delle canzoni che mi colpiscono in modo particolare, andarmi poi a procurare il relativo disco, ed in questo caso  il tutto sembrava abbastanza facile, considerato che la colonna sonora è stata pubblicata in ben 4 cd diversi, usciti nell'arco di 5 anni; invece, mi sono trovato di fronte ad una sgradita sorpresa, perchè i brani più riusciti e più di impatto, almeno per il sottoscritto, sono stati inspiegabilmente omessi dai cd usciti. Probabilmente dietro c'è un problema di diritti d'autore e concessioni, fatto sta che per procurarmi 4 dei 5 pezzi che andrò ad analizzare, bisognerà andarsi a cercare il relativo disco del gruppo o del cantante che li contiene...una gran bella faticaccia, compensata soltanto dall'aver conosciuto nuovi artisti di cui prima ne ignoravo l'esistenza.
Questo, per un amante versatile ed universale della musica, è di vitale importanza:permette di ampliare gli orizzonti, e magari anche di apprezzare generi e stili a cui altrimenti non ti saresti accostato prima d'ora. 
"Sons of Anarchy" è una serie che concede molto risalto alla musica durante gli episodi nonstante i brani utilizzati si contino sulla punta delle dita, e quando gli sceneggiatori hanno lasciato che la musica "parlasse" accompagnando le immagini, hanno quasi sempre fatto centro, con brani prevalentemente rock/country, rivisitazioni di classici molto popolari e sporadiche incursioni in terreni che non ci si aspetterebbe.

1 - STRAYLIGHT RUN - HANDS IN THE SKY (BIG SHOT)
Il brano che si è stampato nella mia mente più di tutti gli altri, e che mi ricorderà per sempre questa serie non è la sigla di apertura (strano, ma vero), ma questo degli americani Straylight Run. "Hands in the sky" è' un indie rock "double-face", dove ad un lunghissimo preambolo di due minuti e mezzo costruito su tastiere ed elettronicismi, si contrappone una seconda parte tiratissima, piena di energia, dove il cantante John Nolan si lancia a squarciagola in un ritornello, ripetuto fino alla fine, di rara efficacia ("BIG SHOTS SCREAMING 'PUT YOUR HANDS IN THE SKY', HE SAYS 'GIVE IT UP BOY, GIVE IT UP OR YOU GONNA DIE! YOU'LL GET A BULLET IN THE BACK OF THE NECK, IN THE BACK OF THE NECK RIGHT BETWEEN THE EYES!").
Il pezzo compare in uno degli episodi finali della seconda stagione, dove il clan di motociclisti si appresta ad affrontare a viso aperto un gruppo di fondamentalisti ariani, ed accompagna tutta la fase preparatoria di questo duello. Il giro di chitarre elettriche distorte che accompagna il cantato della parte finale è semplice e lineare, rendendolo un pezzo ad effetto ed immediato, tanto da farti venire voglia di montare su una Harley per mangiarti la strada con il rombo del suo motore (magari osservando le volanti della polizia che ti inseguono dallo specchietto retrovisore). La canzone si trova sull'E.P. del 2005 "Prepare to be wrong".

2 -  THE WHITE BUFFALO - OH DARLIN' WHAT I'VE DONE
Altro pezzo di rilievo che compare nella quarta stagione è questo dei White Buffalo, terzetto americano capitanato dal cantante Jake Smith. La voce, dal timbro caldo e  ruvido è proprio quella che fa la differenza in questo pezzo rock'n'roll/country che sembra provenire da un'altra epoca (avrebbe potuto cantarlo benissimo anche Elvis Presley, per dire). La chitarra country ed acustica pervade tutta la canzone di malinconia, mentre viene raccontato il pentimento di un uomo per aver lasciato per troppo tempo la sua amata, e per aver permesso che tutti i suoi giorni divenissero tenebra, ora che "parla" solamente attraverso gli spari di una pistola ("OH DARLIN',DARLIN', WHAT I'VE DONE? WELL I'VE BEEN AWAY FROM YOU FOR TOO LONG. AND ALL MY DAYS HAVE TURNED INTO DARKNESS, AND I BELIVE MY HEART HAS TURNED TO STONE").
E' evidente come queste canzoni scelte dagli sceneggiatori, non siano state messe lì a caso ma selezionate prima di tutto in base al genere, e poi anche seguendo attentamente il significato del testo, che rispecchia in pieno il dilemma tra giusto e sbagliato, tra legale e illecito che si trova a dover affrontare il protagonista nell'arco dell'intera serie. Il brano è tratto dall'E.P. "Prepare for black & blue"del 2010, e sebbene nei cd delle colonne sonore di "Sons of Anarchy" siano presenti altri brani e collaborazioni dei White Buffalo, purtroppo questo bellissimo pezzo manca all'appello.


3 - YELAWOLF - TILL IT'S GONE
Ed ecco ciò che non ti saresti mai aspettato : un'artista rap, che in realtà è riuscito a mescolare lo stile country con l'hip-hop in modo assolutamente originale. Intanto iniziamo col dire che è stato lanciato (e prodotto) da Eminem, che non è l'ultimo arrivato, e che ha avuto fiuto per il talento di questo ragazzo. Poi, ascoltando "Love story" (album da cui è tratta questa "Till it's gone"), sono rimasto piacevolmente sorpreso da questo incontro di generi apparentemente agli antipodi, e da come siano stati assemblati alla perfezione. "Till it's gone", che chiude un episodio della sesta stagione, nè è un tipico esempio:ad un ritmo incalzante, scortato da un persistente effetto "esplosione", si sovrappongono le chitarre acustiche che si aprono al momento del ritornello, costruito su una melodia meravigliosa ("AIN'T MUCH I CAN DO BUT I DO WHAT I CAN, BUT I'M NOT A FOOL THERE'S NO NEED TO PRETEND. AND JUST BECAUSE YOU GOT YOURSELF IN SOME SHIT, IT DOESN'T MEAN I HAVE TO COME  DEAL WITH IT").
Lo "studio" su Yelawolf andrà approfondito in futuro, magari procurandomi anche i 4 lavori precedenti a "Love story"; l'influenza del maestro Eminem si sente eccome, ma indubbiamente questo artista ci mette molto del suo, e il genere meticcio da lui creato ed elaborato è senza dubbio notevole.

4 - BATTLEME & THE FOREST RANGERS - LIGHTS
Battleme è il nome di una band che nasce dalla mente di Matt Drenik, ex cantante dei Lions, inizialmente piu' come side-project per asllontanarsi dalle sonorità metal del gruppo, poi come impegno a tempo pieno a partire dal 2010.
Nella serie tv sono presenti diversi brani in stile country folk dei Battleme, e persino una cover di "Hey Hey, My My" di Neil Young, ma quello che mi ha colpito di più e mi è rimasto più impresso è questo lento e strappalacrime "Lights", intenso ed acustico, con la chitarra accompagnata da uno struggente pianoforte e dei brevi accenni di archi. 
La voce, limpida e magnificamente accorata alla malinconia degli stgrumenti, racconta di un conflitto interiore sul chi si è e sul chi si vorrebbe realmente essere, perchè nonostante la vita vada avanti, i progetti cambino e le persone tornino a vadano via, qualsiasi cosa di noi dirà ciò che abbiamo fatto e la nostra vera identità verrà sempre a galla ("I SEE YOU OUT THERE ON THE WALL, SAY YOU'LL JUMP INSTEAD OF FALL. THINKING THIS IS ALL YOU ARE, SINKING SHIPS'N'SHOOTING STARS, SAYING THIS IS WHO WE ARE..."). Utilizzata nella quinta stagione dei Sons, il brano si avvale della collaborazione dei The Forest Rangers, il gruppo scelto dall'ideatore della serie Kurt Sutter per reinterpretare numerosi classici durante l'arco di tutte le stagioni, e creatore della sigla di apertura.

5 - MIKE NESS - THE DEVIL IN MISS JONES
C'è spazio anche per il rockabilly, ovviamente, in una serie dedicata a dei motociclisti : e quanto è americano questo country-rock'n'roll indiavolato (come dice il titolo)! Qui veramente si esemplifica al meglio quella musica da ascoltare "on the road", passando da paese in paese a cavallo del rombo di una Harley Davidson con un giubbotto di pelle. E brani come questo, sono più che adatti alla tematica della serie TV, ad ulteriore dimostrazione di come si sia fatto un gran lavoro di ricerca e scelta per tutte le canzoni da inserire nella serie. 
La canzone è tratta dal proimo album solista di Mike Ness (ex-frontman dei Social Distortion) dal titolo "Cheating at solitaire", e parla di una donna che ha abbandonato il suo "background" parrocchiale per lasciarsi trascinare da un fuoco interiore con cui alimenterà i desideri dell'uomo che la amerà, finchè sarà giovane, per poi abbandonarla quando sarà vecchia:"THE DAYS OF WINE AND ROSES WERE A LONG TIME AGO, THE PROMS, TEENAGE CRUISIN' AND THE PICTURE SHOW...YOU TRIED SO HARD TO FIX YOUR OUTSIDES UNTIL YOU REALIZED THAT I TOOK EVERYTHING DEAR, INSIDE...".
Non proprio un racconto di cui andare fieri, ma rientra tutto nello spirito giocoso del rockabilly; Preso singolarmente, questo brano è molto interessante per il suo gusto vintage, un sicuro riempi-pista per un ballo sfrenato in una qualsiasi festa.

Queste sono le mie scelte per una mini-playlist ispirata alla serie tv "Sons of Anarchy". Al di là della difficile reperibilità fisica di alcuni cd, è un gran peccato non potersi gustare su un unico disco tutti i brani migliori, uno dopo l'altro.  
In tutte le stagioni ci sono pezzi validi, e sceglierne solo 5 (omettendo la sigla, "This life" interpretata da Curtis Stigers ed i soliti Forest Rangers) non è stato semplice.
I cd della colonna sonora offrono un ottimo spunto ed un'infarinatura sullo stile musicale, ma la vera anima va ricercata - ahimè - altrove, ed in ogni caso non lascia delusi perchè i pezzi elencati sopra sono di altissima qualità. Se poi, la Columbia decidesse di fare un ulteriore regalo ai fans della serie, pubblicando un nuovo "best of" con tutti i brani tralasciati nei precedenti cd, il sottoscritto indosserà la sua giacca dei SAMCRO e sgommando sulla sua Harley andrà dritto al negozio di dischi a comprarlo, per poi proseguire il suo personale viaggio alla ricerca di nuove alleanze da stringere per il bene della sua famiglia di bikers.